sabato 23 maggio 2015

Oggi ho visto nel corteo: intervista a Biagio Autieri su mayday, riots e dintorni di Gabriele Stilli


Da Biagio Autieri, romanziere ed educatore di strada, c'è sempre da imparare qualcosa. Lo trovo per caso, qualche giorno fa: «Oh, alla mayday c'ero anch'io: ero proprio lì in mezzo», mi dice. E attacca a parlarmi degli scontri con una forza che non avevo sentito dire da nessuna organizzazione, da nessuno. E che, come capita spesso, non condividevo. Ma proprio per questo il suo racconto mi colpisce, è interessante. Dannatamente interessante. Sono di fretta, gli chiedo se possiamo continuare in un altro momento. «Se vuoi ti concedo un'intervista», mi dice, così, ad un tratto. Ed eccoci qui.

Che ci facevi al No Expo? O meglio, che ci facevi in quello spezzone del No Expo?

Mi chiedevo questo: chi sono queste persone che i media mainstream presentano così? Se presentano questo blocco nero nello stesso modo, da sempre, dal G8 di Genova, mi chiedevo se ci fosse un dato di realtà. E poi ero mosso da una grande curiosità, chiaramente io vengo dal lontano movimento del '77, una curiosità che nasce dalla consapevolezza che la situazione socio-economica che stiamo vivendo è davvero fuori da qualsiasi analisi che avessimo potuto fare fino a dieci anni fa. L'epoca che stiamo vivendo è caratterizzata da un'enorme marginalità e precarizzazione. Questa marginalizzazione ha significato per i ragazzi l'espulsione da qualsiasi tipo di circuito: politico, culturale, produttivo. Io sono andato lì e ho visto migliaia di ragazzi, tutti quanti molto giovani, e non soltanto molto giovani, ma anche molto coscienti.

Molto coscienti?


Sì, davvero consapevoli: bisogna smetterla di pensare che non capiscano nulla... Non perché questi atti vadano giustificati: ora non voglio passare per quello che li giustifica, ci mancherebbe. Ma vanno compresi: col 45% di disoccupazione giovanile c'è da stupirsi se qualcuno spacca le vetrine? Io c'ero, ero lì in mezzo, li ho visti, ci ho parlato: è tutta gente che davvero non ha più niente da perdere. Niente. «Cioè zio, mio padre bestemmia tutto il giorno, si sputtana tutto con le macchinette»; «Viviamo in case occupate, perché non possiamo pagare un affitto». Ed è vero, altro che figli di papà col Rolex! Faccio l'educatore di strada da vent'anni. Lo conosco il disagio. E quei ragazzi li ho riconosciuti tutti, so benissimo chi sono, sono i ragazzi con il padre disoccupato e la mamma che va a lavare le scale, capisci? 20-25 anni, magari hanno pure studiato, ma non possono fare nulla lo stesso. Ed erano per la maggior parte italiani: su 800-1000 persone, saranno stati un centinaio quelli che venivano dall'estero. Quello che ho capito venerdì è che questi ragazzi hanno espresso il bisogno forte, attraverso lo scontro, di un confronto con una società che li ha esclusi. Per quelli della mia generazione è facile dire «Cazzo, ribellatevi!» Ma come? Come possono ribellarsi? È dagli anni '80 che parlo di repressione culturale. La cosa che mi ha fatto incazzare è sentire quei moralisti anche all'interno del corteo stesso! Che si lamentavano di quello che stava succedendo! Una donna si è affacciata da un palazzo di via Carducci (ora, una casa così costerà 10.000 euro al metro quadro) e urlava «Vergogna!». Una ragazzina, lì in basso, si è tolta il casco e le ha urlato «stai zitta, vecchia borghese». Ecco, la volevo abbracciare. Io non mi sento di condannarli. Non è certo da rivendicare, ma non mi sento di condannarli. Quindi, quando ho visto la deformazione (l'informazione, che io chiamo deformazione) che cercava di amplificare gli avvenimenti di Milano con cose vergognose, mi sono chiesto: possibile che non ci si renda conto di queste enormi masse marginalizzate? È stata montata una fiction su un ragazzino evidentemente poco sveglio... e poi hanno chiamato il padre, poi il ragazzino ha chiesto scusa... una telenovela! Come diceva Marx, ha il potere chi detiene i mezzi di produzione, e, oggi, soprattutto chi detiene i mezzi di informazione: quando D'Alema bombardò il Kosovo, facevano vedere le immagini dei profughi, dei kosovari bombardati dai serbi, ripetute e ripetute per farli sembrare tanti; se ci facevi caso, le facce erano sempre le stesse. Ecco la deformazione, la distrazione.

Al primo maggio non c'ero, quindi non posso giudicare con obiettività l'accaduto. Ma, dall'esterno, noto che le organizzazioni, i centri sociali, i collettivi studenteschi, ogni volta, dopo anni di fatica, vengono messi in crisi da episodi che sfuggono loro di mano. Le interpretazioni sono varie, ma quello che vedo è un movimento sistematicamente ostaggio di raggruppamenti con una  linea politica ben precisa, e diametralmente opposta.

Dici bene, «ostaggio». Non sono i militanti dei centri sociali: sono i ragazzi di periferia, quelli che non hanno nulla da perdere. Quello sì, era ovviamente un atto politico: non è possibile pensare che se dei ragazzi esclusi, marginalizzati, esprimono un bisogno, questo non sia un atto politico! Questo succede proprio quando non hai uno spazio, non hai «agibilità politica», come dicevamo noi, cioè la possibilità di organizzarsi e di lottare per i propri diritti. Uno dei grandi errori che abbiamo fatto è stato proprio quello di scornarci su queste cose: se una roba è un'azione politica, se non è un'azione politica... Non dico che bisogna distruggere tutto: le macerie non ci fanno paura, ma non bisogna distruggere tutto. Eppure, e adesso non voglio sembrare retorico, conta più una vetrina o il suicidio di tre mesi fa di un operaio di Torino, che si è buttato dall'ottavo piano?
Se vogliamo dare delle risposte, invece di dividerci, di criminalizzare, è necessario creare uno spazio che metta assieme questi bisogni, e che con essi inondi la società. E non importa da che centro sociale vieni, che esperienza hai. Altrimenti il divide et impera di questa società ci stroncherà. Ce l'ha insegnato Genova. Non dobbiamo chiederci se è giusto o è sbagliato quello che è successo. Questo è quello che vuole il potere. Quello che si deve dire è che questo primo maggio è stato comunque un avvenimento importante, un'azione politica forte.

Hai ragione a dire che pensare in termini di giusto e sbagliato non ci aiuta, perché sono categorie astratte, senza un vero significato. Ma questo non vuol dire che il discorso non possa essere riproposto in termini di opportuno-inopportuno: hai detto che oggi ha potere chi detiene i mezzi d'informazione. Ora, i mezzi di informazione non aspettavano altro: queste persone hanno dato ai media esattamente ciò che volevano.

Ti rispondo sempre con l'esperienza di un rivoluzionario da quarant'anni. Il processo della costruzione della disinformazione non è questo. Il processo non è «non aspettano altro per...». Non aspettano altro se noi, al nostro interno, formuliamo il giudizio, se incominciamo a dividere tra buoni e cattivi. Su quella divisione loro costruiscono la telenovela! Condannare la violenza e nello stesso tempo urlare gli slogan contro le banche, è un atteggiamento illusoriamente antagonista, non ha senso: i ragazzi bruciavano la Porsche e non la Toyota di fianco per il semplice fatto che se ti sei comprato la Porsche, significa che un altro non potrà comprarsi nemmeno la bicicletta. Perché le risorse sono quelle. Il che non vuol dire rivendicare questi atti, dire «Io sono un movimento perché spacco le vetrine». Certo che no: io sono un movimento perché voglio cambiare la società.

Ma c'è comunque un limite, no? Un limite che si valuta caso per caso, ma che è necessario, non credi?

Purtroppo, il limite riusciamo a metterlo se riusciamo ad avere degli spazi in cui poterci confrontare e praticare quello che siamo. Oggi non è più così. L'apparato repressivo è maggiore rispetto a quarant'anni fa. Non mi stupirei se dei ragazzi di Quarto Oggiaro, invece di stare a spacciare tutto il giorno (perché poi ti rompi i coglioni anche di spacciare, perché quella vita lì non ti dà un cazzo) andassero in centro, spaccassero qualche vetrina e si prendessero quello che vogliono. Non mi stupirei: mi chiederei il perché, e la risposta me la saprei dare. Perché se crei una società di bisogni fittizi, in cui sei nessuno se non hai quell'oggetto, uno va e se lo prende. Più il tempo passa più mi rendo conto che solo l'anarchismo darà una risposta. Ma non solo in senso teorico: io non aspetto la rivoluzione per essere anarchico. L'anarchia si è sempre differenziata da tutte le altre tendenze perché è una praxis, la prassi derivante dall'espressione dei bisogni. Noi, nel '77, abbiamo commesso tanti errori, ma gli abbiamo fatto paura. E per questo ci hanno inondato di eroina. Gli abbiamo fatto paura perché avevamo creato il contropotere all'interno dei quartieri. È la cosa che ricordo con più piacere, la strategia e lo strumento con cui stavamo costruendo delle microrealtà, delle comunità di quartiere in cui rispondevamo ai nostri bisogni. Se ti tagliano la luce, quello non è un problema personale: è un problema politico. E allora si faceva l'autoriduzione di massa, si pagava solo quello che si poteva. Eravamo noi che decidevamo come utilizzare il nostro reddito. Vedi, a me non interessa nulla delle vetrine. Il problema è che quella roba lì non deve diventare un'arma nelle mani del potere. Ecco la risposta alla questione. La violenza di venerdì è poca, molto poca in confronto a quella che si vive ogni giorno. Molto poca. È per questo che si deve costruire sui quei fatti. Non dividersi. Perché poi la divisione porta la borghesia di Milano a sfilare con le ramazze. Vedi, c'è una cosa che mi ha fatto parecchio incazzare. Su Facebook ho letto di uno che era indignato (e si definiva compagno) perché la darsena nuova era già imbrattata di scritte. Ma siamo fuori di testa! Tu non ti indigni per le colate di cemento in città, non ti indigni del cambiamento della destinazione d'uso di un terreno agricolo per far guadagnare i palazzinari, rovinare un progetto, che era quello originario, degli orti dentro la città eccetera eccetera. Non ti indigni per quello e ti indigni per quattro adolescenti che fanno le scritte! Ma è possibile? Gli adolescenti sono i criminali di questa società. Io mi chiedo: è possibile?



Biagio Autieri, nato a Cosenza, lavora come educatore di strada presso una cooperativa sociale di Milano. Collaboratore di vari periodici, tra cui Diario di Enrico Deaglio, ha pubblicato nel 2008, presso ISBN edizioni, il suo romanzo L'insolita rumba. Oggi collabora con Re/search Milano, guida di una città fatta a pezzi, l'importante progetto di Agenzia X in uscita proprio in questi giorni, a cui, tra gli altri, hanno preso parte lo studioso di cultura underground Marco Philopat, gli scrittori Gianni Biondillo e Giorgio Fontana, il musicista Mauro Pagani, il collettivo di poesia Tempi DiVersi e il premio Nobel Dario Fo.

2 commenti:

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  2. Complimenti Biagio bellissima lettura sul disagio sociale e soprattutto giovanile. Condivido assolutamente e hai ragione dobbiamo smetterla con l'indignazione per piccoli e insignificanti atti goliardico e di contro l'accettazione di gravissimi atti di sopruso

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