Da
Biagio Autieri, romanziere ed educatore di strada, c'è sempre da
imparare qualcosa. Lo trovo per caso, qualche giorno fa: «Oh, alla
mayday c'ero anch'io: ero proprio lì in mezzo», mi dice. E attacca
a parlarmi degli scontri con una forza che non avevo sentito dire da
nessuna organizzazione, da nessuno. E che, come capita spesso, non
condividevo. Ma proprio per questo il suo racconto mi colpisce, è
interessante. Dannatamente interessante. Sono di fretta, gli chiedo
se possiamo continuare in un altro momento. «Se vuoi ti concedo
un'intervista», mi dice, così, ad un tratto. Ed eccoci qui.
Che
ci facevi al No Expo? O meglio, che ci facevi in quello
spezzone del No
Expo?
Mi
chiedevo questo: chi sono queste persone che i media mainstream
presentano così? Se presentano questo blocco nero nello stesso
modo, da sempre, dal G8 di Genova, mi chiedevo se ci fosse un dato di
realtà. E
poi ero mosso da una grande curiosità, chiaramente io vengo dal
lontano movimento del '77, una curiosità che nasce dalla
consapevolezza che la situazione socio-economica che stiamo vivendo è
davvero fuori da qualsiasi analisi che avessimo potuto fare fino a
dieci anni fa. L'epoca che stiamo vivendo è caratterizzata da
un'enorme marginalità e precarizzazione. Questa marginalizzazione ha
significato per i ragazzi l'espulsione da qualsiasi tipo di circuito: politico, culturale, produttivo. Io sono andato lì e ho visto
migliaia di ragazzi, tutti quanti molto giovani, e non soltanto molto
giovani, ma anche molto coscienti.
Molto
coscienti?
Sì,
davvero consapevoli: bisogna smetterla di pensare che non capiscano
nulla... Non perché questi atti vadano giustificati: ora non voglio
passare per quello che li giustifica, ci mancherebbe. Ma vanno
compresi: col 45% di disoccupazione giovanile c'è da stupirsi se
qualcuno spacca le vetrine? Io c'ero, ero lì in mezzo, li ho visti,
ci ho parlato: è tutta gente che davvero non ha più niente da
perdere. Niente. «Cioè zio, mio padre bestemmia tutto il giorno, si
sputtana tutto con le macchinette»; «Viviamo in case occupate,
perché non possiamo pagare un affitto». Ed è vero, altro che figli
di papà col Rolex! Faccio l'educatore di strada da vent'anni. Lo
conosco il disagio. E quei ragazzi li ho riconosciuti tutti, so
benissimo chi sono, sono i ragazzi con il padre disoccupato e la
mamma che va a lavare le scale, capisci? 20-25 anni, magari hanno
pure studiato, ma non possono fare nulla lo stesso. Ed erano per la
maggior parte italiani:
su 800-1000 persone, saranno stati un centinaio quelli che venivano
dall'estero. Quello
che ho capito venerdì è che questi ragazzi hanno espresso il
bisogno forte, attraverso lo scontro, di un confronto con una società
che li ha esclusi. Per quelli della mia generazione è facile dire
«Cazzo, ribellatevi!» Ma come? Come possono ribellarsi? È dagli
anni '80 che parlo di repressione culturale. La cosa che mi ha fatto
incazzare è sentire quei moralisti anche all'interno del corteo
stesso! Che si lamentavano di quello che stava succedendo! Una donna
si è affacciata da un palazzo di via Carducci (ora, una casa così
costerà 10.000 euro al metro quadro) e urlava «Vergogna!». Una
ragazzina, lì in basso, si è tolta il casco e le ha urlato «stai
zitta, vecchia borghese». Ecco, la volevo abbracciare. Io non mi
sento di condannarli. Non è certo da rivendicare, ma non mi sento di
condannarli. Quindi, quando ho visto la deformazione (l'informazione,
che io chiamo deformazione) che cercava di amplificare gli
avvenimenti di Milano con cose vergognose, mi sono chiesto: possibile
che non ci si renda conto di queste enormi masse marginalizzate? È
stata montata una fiction su un ragazzino evidentemente poco
sveglio... e poi hanno chiamato il padre, poi il ragazzino ha chiesto
scusa... una telenovela! Come diceva Marx, ha il potere chi detiene i
mezzi di produzione, e, oggi, soprattutto chi detiene i mezzi di
informazione: quando D'Alema bombardò il Kosovo, facevano vedere le
immagini dei profughi, dei kosovari bombardati dai serbi, ripetute e
ripetute per farli sembrare tanti; se ci facevi caso, le facce erano
sempre le stesse. Ecco la deformazione, la distrazione.
Al
primo maggio non c'ero, quindi non posso giudicare con obiettività
l'accaduto. Ma, dall'esterno, noto che le organizzazioni, i centri
sociali, i collettivi studenteschi, ogni volta, dopo anni di fatica,
vengono messi in crisi da episodi che sfuggono loro di mano. Le
interpretazioni sono varie, ma quello che vedo è un movimento
sistematicamente ostaggio di raggruppamenti con una linea politica ben
precisa, e diametralmente opposta.
Dici
bene, «ostaggio». Non sono i militanti dei centri sociali: sono i
ragazzi di periferia, quelli che non hanno nulla da perdere. Quello
sì, era ovviamente un atto politico: non è possibile pensare che se
dei ragazzi esclusi, marginalizzati, esprimono un bisogno, questo non
sia un atto politico! Questo succede proprio quando
non hai uno spazio, non hai «agibilità politica», come dicevamo
noi, cioè la possibilità di organizzarsi e di lottare per i
propri diritti. Uno
dei grandi errori che abbiamo fatto è stato proprio quello di
scornarci su queste cose: se una roba è un'azione politica, se non
è un'azione politica... Non dico che bisogna distruggere tutto: le
macerie non ci fanno paura, ma non bisogna distruggere tutto. Eppure,
e adesso non voglio sembrare retorico, conta più una vetrina o il
suicidio di tre mesi fa di un operaio di Torino, che si è buttato
dall'ottavo piano?
Se
vogliamo dare delle risposte, invece di dividerci, di criminalizzare,
è necessario creare uno spazio che metta assieme questi bisogni, e
che con essi inondi la società. E non importa da che centro sociale
vieni, che esperienza hai. Altrimenti il divide et impera di questa
società ci stroncherà. Ce l'ha insegnato Genova. Non dobbiamo
chiederci se è giusto o è sbagliato quello che è successo. Questo
è quello che vuole il potere. Quello che si deve dire è che questo
primo maggio è stato comunque un avvenimento importante, un'azione
politica forte.
Hai
ragione a dire che pensare in termini di giusto e sbagliato non ci
aiuta, perché sono categorie astratte, senza un vero significato. Ma
questo non vuol dire che il discorso non possa essere riproposto in
termini di opportuno-inopportuno: hai detto che oggi ha potere chi
detiene i mezzi d'informazione. Ora, i mezzi di informazione non
aspettavano altro: queste persone hanno dato ai media esattamente ciò
che volevano.
Ti
rispondo sempre con l'esperienza di un rivoluzionario da
quarant'anni. Il processo della costruzione della disinformazione non
è questo. Il processo non è «non aspettano altro per...». Non
aspettano altro se noi, al nostro interno, formuliamo il giudizio, se
incominciamo a dividere tra buoni e cattivi. Su quella divisione loro
costruiscono la telenovela! Condannare la violenza e nello stesso
tempo urlare gli slogan contro le banche, è un atteggiamento
illusoriamente antagonista, non ha senso: i ragazzi bruciavano la
Porsche e non la Toyota di fianco per il semplice fatto che se ti sei
comprato la Porsche, significa che un altro non potrà comprarsi
nemmeno la bicicletta. Perché le risorse sono quelle. Il che non
vuol dire rivendicare questi atti, dire «Io sono un movimento perché
spacco le vetrine». Certo che no: io sono un movimento perché
voglio cambiare la società.
Ma
c'è
comunque un limite, no? Un limite che si valuta caso per caso, ma che
è necessario, non credi?
Purtroppo,
il limite riusciamo a metterlo se riusciamo ad avere degli spazi in
cui poterci confrontare e praticare quello che siamo. Oggi non è più
così. L'apparato repressivo è maggiore rispetto a quarant'anni fa.
Non mi stupirei se dei ragazzi di Quarto Oggiaro, invece di stare a
spacciare tutto il giorno (perché poi ti rompi i coglioni anche di
spacciare, perché quella vita lì non ti dà un cazzo) andassero in
centro, spaccassero qualche vetrina e si prendessero quello che
vogliono. Non mi stupirei: mi chiederei il perché, e la risposta me
la saprei dare. Perché se crei una società di bisogni fittizi, in
cui sei nessuno se non hai quell'oggetto, uno va e se lo prende. Più
il tempo passa più mi rendo conto che solo l'anarchismo darà una
risposta. Ma non solo in senso teorico: io non aspetto la rivoluzione
per essere anarchico. L'anarchia si è sempre differenziata da tutte
le altre tendenze perché è una praxis, la prassi derivante
dall'espressione dei bisogni. Noi, nel '77, abbiamo commesso tanti
errori, ma gli abbiamo fatto paura. E per questo ci hanno inondato di
eroina. Gli abbiamo fatto paura perché avevamo creato il
contropotere all'interno dei quartieri. È la cosa che ricordo con
più piacere, la strategia e lo strumento con cui stavamo costruendo
delle microrealtà, delle comunità di quartiere in cui rispondevamo
ai nostri bisogni. Se ti tagliano la luce, quello non è un problema
personale: è un problema politico. E allora si faceva
l'autoriduzione di massa, si pagava solo quello che si poteva.
Eravamo noi che decidevamo come utilizzare il nostro reddito. Vedi, a
me non interessa nulla delle vetrine. Il problema è che quella roba
lì non deve diventare un'arma nelle mani del potere. Ecco la
risposta alla questione. La violenza di venerdì è poca, molto poca
in confronto a quella che si vive ogni giorno. Molto poca. È per
questo che si deve costruire sui quei fatti. Non dividersi. Perché
poi la divisione porta la borghesia di Milano a sfilare con le
ramazze. Vedi, c'è una cosa che mi ha fatto parecchio incazzare. Su
Facebook ho letto di uno che era indignato (e si definiva compagno)
perché la darsena nuova era già imbrattata di scritte. Ma siamo
fuori di testa! Tu non ti indigni per le colate di cemento in città,
non ti indigni del cambiamento della destinazione d'uso di un terreno
agricolo per far guadagnare i palazzinari, rovinare un progetto, che
era quello originario, degli orti dentro la città eccetera eccetera.
Non ti indigni per quello e ti indigni per quattro adolescenti che
fanno le scritte! Ma è possibile? Gli adolescenti sono i criminali
di questa società. Io mi chiedo: è possibile?
Biagio
Autieri,
nato a Cosenza, lavora come educatore di strada presso una
cooperativa sociale di Milano. Collaboratore di vari periodici, tra
cui Diario
di Enrico Deaglio, ha pubblicato nel 2008, presso ISBN edizioni, il
suo romanzo L'insolita
rumba.
Oggi collabora con Re/search
Milano, guida di una città fatta a pezzi,
l'importante progetto di Agenzia X in uscita proprio in questi
giorni, a cui, tra gli altri, hanno preso parte lo studioso di
cultura underground Marco Philopat,
gli
scrittori Gianni Biondillo e Giorgio Fontana, il musicista Mauro
Pagani, il collettivo di poesia Tempi
DiVersi
e
il premio Nobel Dario Fo.
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Complimenti Biagio bellissima lettura sul disagio sociale e soprattutto giovanile. Condivido assolutamente e hai ragione dobbiamo smetterla con l'indignazione per piccoli e insignificanti atti goliardico e di contro l'accettazione di gravissimi atti di sopruso
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