lunedì 27 febbraio 2017

L'importanza del tornello



La questione dei tornelli con tutta la mobilitazione e l'attenzione mediatica che ne è seguita ci ha lasciato tutti alquanto di stucco, a cominciare dagli stessi attivisti che hanno visto scoppiare da questo piccolo casus belli tutto il fermento e la partecipazione che ne sono seguiti.
E' piuttosto diffuso un sottofondo di stupore, inespresso nel caso dei diretti animatori della mobilitazione, e tutti si aspettano di dover rispondere da un momento all'altro a un' ipotetica obiezione del tipo “ma cosa vuoi che te ne freghi di due tornelli, con tutti i problemi che ci sono”.
In questo caso parrebbe che il CUA, cogliendo l'occasione per tentare di far scoppiare qualcosa (ché con la mobilitazione legata all'alto prezzo della mensa non è andata troppo bene, e anche qui sarebbe interessante ragionare sui motivi), abbia acceso la miccia giusta.
Non molti tuttavia sembrano rendersi lucidamente conto del perché.
Le argomentazioni più diffuse sul libero accesso a tutti ai locali dell'università, sulla necessità di trasversalità e di luoghi di incontro e di scambio, sull'assurdità della repressione poliziesca, pur essendo certamente pertinenti, non colgono completamente il fulcro del problema.
Neanche Zerocalcare sembra afferrare molto bene il punto nel suo breve intervento a fumetti quando parla di “ragionare insieme su cosa dovrebbe essere l'università”.
Manca, in altre parole, una visione chiara e comprensiva di un processo in corso di natura più ampia e diffusa, che viene percepito in modo ancora confuso e riguarda gli spazi urbani e la loro conformazione. Cercherò a breve di approfondire questo argomento.
Prevale, ognimodo, una forma di semi-incredulità di fondo, inespressa e sommersa dalla retorica antagonista (che molti di noi continuano a reputare alquanto stucchevole) che rischia di appesantire un momento che potrebbe invece essere molto prolifico.
Hanno preso parte alla mobilitazione tanti ragazzi più o meno legati al mondo della politica, ma ce ne sono anche tanti altri che fino ad ora non hanno avuto molto a che fare con il “movimento” e con la militanza, e cominciano a vedersi finalmente in assemblea le facce incredule e perplesse di molti studenti “normali” che, con questa retorica, non hanno né vogliono averci troppo a che fare.
D'altra parte, questa latente incredulità è utilizzata molto bene, appunto, dall'altra parte, quella della propaganda ufficiale, che minimizza la questione dei tornelli e tenta di ridurre il tutto, citando Marx, a una semplice “farsa”.
L'informazione mainstream punta sulla delegittimazione, più che numerica, qualitativa “cosa vuoi che siano due tornelli”, “è un pretesto come un altro per fare casino”, “non sanno neanche loro cosa stanno facendo”.
Il fatto è che, sotto un certo punto di vista, è proprio così.

Quando ho saputo che avrebbero installato i tornelli ho provato un senso di fastidio, ma pensandoci non saprei davvero razionalizzare il perché. “Porca puttana, sono appena arrivato e Bologna diventa già una merda, tra centri commerciali a cielo aperto, bar, pub, discoteche ed esche varie per studenti mi mettono pure i tornelli alla biblioteca di Lettere”. Quanto ho visto la polizia, dall'alto di una balconata al 38, sgomberare i ragazzi dal chiostro di sotto la rabbia è poi salita alle stelle.
Ricordo più o meno la stessa sensazione quando, tornato a Dublino dopo tre mesi passati in Scozia, ho scoperto che avevano costruito uno studentato alla moda di fronte al block popolare dove vivevo con un amico.
Vedere quegli hipster con i risvoltini alle caviglie passare in continuazione davanti alle entrate del block cercando lo studentato, coi grappoli di ragazzetti di strada che li guardavano divertiti, mi faceva rabbia. Sapevo che di lì a poco sarebbe morto qualcosa, un altro pezzo di vita reale di quella splendida città se ne sarebbe andato. Asfaltato dalla gentrificazione e dalla “riqualificazione” a misura di consumo, da giovani bohemien che approdano a Dublino in cerca di avventure, suggestioni e vita vissuta che loro stessi contribuiscono a distruggere.
Un muro, un tornello, uno studentato per ricchi, un treno ad alta velocità te li trovi davanti da un giorno all'altro, e non puoi farci proprio niente. Solo rosicare. Non puoi urlare al muro, non puoi scontrartici, non puoi dialogarci, non gli puoi sparare e non puoi metterlo sulla ghigliottina e tagliargli la testa. Non è un nobile, non è un politico, non è un padrone, non è un magnate, non è un poliziotto e non è un agente dell'alta finanza. La tua rabbia resta impotente, frustrata anche dal fatto che non riesci a capire esattamente con chi te la devi prendere.
Ho poi capito, pensandoci, che ciò che mi faceva così rabbia era in realtà un processo.
Un processo diffuso che potrebbe essere chiamato, in senso lato, di normalizzazione e spettacolarizzazione. Normalizzazione degli spazi urbani, dei rapporti, delle vite, delle relazioni tra individui, funzionali a una spettacolarizzazione consumistica di tutto ciò che prima era reale, realmente vissuto. Contro tutto questo c'è poco da sbraitare.
Sì, posso prendermela con l'assessore all'urbanistica, con il sindaco, col rettore, col questore, anche col magutto sporco di malta che lo costruisce se non sono un tipo con gli occhi di falco, ma intanto il muro resta e la normalizzazione pure, e forse non si può neanche dire che siano davvero loro i responsabili, almeno non in senso assoluto. E' il processo generale il problema. Non ricordo dove ho letto che con un muro non parli, o ci scrivi sopra o lo abbatti, ma mi sembra molto vero.
Di fronte a questo processo anonimo, fluido e penetrante di annullamento del reale e delle contraddizioni che porta con sé, di fronte a questo panoptismo che è diventato talmente difficile da scalfire da aprire davvero la strada all'idea della disfatta (parossismo del panoptismo, azzarderei, visto che non solo siamo tutti guardati, ma vogliamo essere guardati, non desideriamo altro che essere guardati), di fronte a tutto questo la rivolta non può che essere dionisiaca. Non può che non sapere “neanche lei perché”. “Questo tornello che mi sta sul cazzo” lo percepisco come parte di un meccanismo generale di normalizzazione che mi sovradetermina, che mi è imposto, che non posso controllare e verso il quale non ho alcun potere decisionale né voce in capitolo. Io lo distruggo. Perché? Boh. “Minchia frà, se non smonti un tornello sei un coglione!”. Tia Sangermano teorico di riferimento per davvero. Embé? Tu mi hai per caso giustificato per filo e per segno, seguendo un ferreo rigore logico (lasciando stare le assurde motivazioni securitarie, comunque fornite perlopiù a cose fatte) il perché da un giorno all'altro mi è spuntato un tornello davanti al naso che condiziona materialmente le mie modalità di fruizione di quello spazio? Perché io uso quello spazio, non il rettore, non gli omini addetti al montaggio e menchemeno i poliziotti che entrano a prendermi a manganellate e sbattermi fuori. Nessuno lo ha fatto. Nessuno mi ha chiesto niente. E io te lo smonto, te lo spacco e lo butto nel cestino. E non ho nessun bisogno di giustificarmi.
Ecco perché tutte le argomentazioni spese per giustificare e tentare di comprendere razionalmente la natura del problema suonano tutto sommato insoddisfacenti, quando non viziate da noiosa retorica antagonista. Il punto non è l'università in sé, il tornello in sé, la possibilità o meno di entrare in una biblioteca che dovrebbe restare libera e pubblica. Il problema sono i nostri luoghi e come vengono strutturati.
Viviamo in un mondo in cui il potere passa attraverso l'organizzazione degli spazi. Degli spazi urbani prima di tutto, luoghi della Storia per eccellenza, ormai metropoli-piattaforme internazionali sempre più slegate dal territorio secolare che le circonda e dalle sue istanze. Questo provoca isolamento, solipsismo, senso di impotenza e di frustrazione.
E la resistenza, l'opposizione a questo potere, non può fare altro che passare a sua volta, in modo quasi irrazionale, attraverso gli spazi.
Distruggere, aprire spiragli, squarci di vita vissuta per davvero, di relazioni vissute per davvero, di luoghi abitati pienamente. Fare sì che la gente si incontri, stia insieme, parli, comunichi, si confronti, riprovi o provi per la prima volta l'esperienza del collettivo, viva un'esperienza altra, da comparare e confrontare con l'individualismo narcisista in cui il nostro mondo ci ha cresciuti, in cui siamo tutti immersi. Sia mai che, comparando, l'esperienza altra superi in qualità quella ordinaria. Tutto ciò, anche se solo in parte, anche se in modo insignificante, il 36 e il suo chiostrino lo facevano. E forse è per questo che c'è stata questa reazione repressiva, tutta questa attenzione mediatica, tanto dibattito ma soprattutto una tale risposta da parte degli studenti. E forse è per questo che nessuno riesce a capire molto bene come tutto ciò sia avvenuto, come sia possibile che un palazzo occupato in cui vivono decine di famiglie che viene sgomberato susciti meno interesse da parte di non-militanti che una biblioteca di Lettere tornellata, se così si può dire. E' una questione di sensibilità collettiva.
Le nuove dinamiche di potere agiscono sull'organizzazione dei luoghi, sull'isolamento e sulla normalizzazione, creando nevrosi e solitudine, che a loro volta creano malessere che si esprime perlopiù in modo irrazionale, e irrazionale, di pancia, non può che essere la risposta.
Ora sta a noi far passare dei messaggi, organizzarci insieme, far vivere a tutti questi “nuovi venuti” l'esperienza della partecipazione, di un'azione autentica e realmente sociale e collettiva.

Azzarderei che gli slogan melensi, la retorica di movimento e gli “adelante companeros!” potrebbero non giovare a questo proposito, e che sia più utile cercare di parlare con tutti, far sentire ognuno a proprio agio, creare gruppi di lavoro, utilizzare i momenti aggregativi per creare nuovi incontri, nuove suggestioni e nuove esperienze, calarsi davvero nell'ambiente che ci circonda senza aver paura di perdere la nostra identità, che dovrebbe essere molto più forte, stabile e consapevole degli slogan, dei cori e dei soliti discorsi stereotipati. Pena il rischio che tutto ciò si perda nel nulla nel giro di poco tempo, una volta che il problema dei tornelli sarà diventato acqua passata.  

creek





1 commento:

  1. Personalmente penso che i tornelli siano un bene, anche se magari si perde un secondo in più per entrare almeno si ha la sicurezza che vi sia un controllo accessi infallibile per tenere alla larga i malintenzionati.

    RispondiElimina